Quando gli dèi cacciavano: la caccia nei miti e nelle religioni antiche
Nel silenzio del bosco primordiale, prima ancora che l’uomo imbracciasse l’arco o inventasse la parola “selvaggina”, gli dèi cacciavano.
Scendevano tra le querce e le rocce, a cavallo o a piedi, con cani dalle fauci fiammeggianti, armati di lance d’argento, archi d’oro, corni e tamburi. La caccia non era allora soltanto un gesto di sopravvivenza o dominio: era un atto sacro, un rito cosmico, una danza eterna tra predatore e preda, tra vita e morte.
Nel cuore delle antiche civiltà, la caccia era il linguaggio degli dèi. Un gesto che univa la terra al cielo, l’uomo al divino, il sangue alla fertilità.
Diana e Artemide: le signore del bosco e della luna
Artemide
Tra le numerose divinità legate alla caccia, Artemide spicca per la sua forza simbolica e il suo fascino intramontabile. Dea greca della luna, dei boschi e della caccia, Artemide era figlia di Zeus e Leto e condivideva con il fratello gemello Apollo una natura divina strettamente legata al mondo selvatico e alla luce celeste.
Considerata protettrice degli animali e delle ragazze ancora non sposate, incarnava l’essenza della libertà femminile e dell’indipendenza. I Greci la raffiguravano spesso mentre correva tra gli alberi, armata di arco e frecce, accompagnata da un seguito di ninfe e da cani agili e fedeli. Era una figura solitaria, ma potente, che custodiva i luoghi incontaminati e puniva severamente chi osava violarli.
Il culto di Artemide aveva un ruolo molto importante nella vita religiosa dell’antica Grecia. Oltre ad essere celebrata per la sua connessione con la natura, era vista anche come guida spirituale per le giovani donne, soprattutto nel delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta.
A questo scopo, venivano organizzati rituali speciali nel santuario a lei dedicato a Braurone, in Attica. Durante questi riti, chiamati Arkteia, le adolescenti ateniesi indossavano pelli d’orso e partecipavano a danze sacre, che simboleggiavano la trasformazione e la rinascita. Questi momenti di iniziazione rappresentavano un vero e proprio passaggio simbolico verso la maturità, sotto la protezione di una divinità che conosceva profondamente la forza, il coraggio e il mistero dell’animo femminile.
Artemide non era soltanto una dea della caccia: era un modello di integrità e armonia con il mondo naturale, un’icona di femminilità forte e selvaggia che ancora oggi affascina chi si addentra nei miti del mondo antico.
Diana
Nella sua trasposizione romana, Diana mantenne molte delle caratteristiche della greca Artemide, ma assunse anche un significato più profondo e articolato, intrecciandosi con le antiche credenze italiche e latine legate alla fertilità, alla luna e ai cicli della natura. Il suo culto divenne uno dei più popolari e longevi del mondo romano, tanto da sopravvivere, in parte, anche all’avvento del cristianesimo, trasformandosi nei culti rurali legati alla Madre Terra e alla protezione dei boschi.
Tra i luoghi più sacri a lei dedicati vi era il celebre bosco di Nemi, nel Lazio, sulle rive dell’omonimo lago vulcanico. Qui sorgeva il Santuario di Diana Nemorensis, noto anche come Speculum Dianae (lo “Specchio di Diana”), considerato un luogo magico, sospeso tra cielo e acqua. Il lago stesso, calmo e profondo, era ritenuto uno specchio della dea, un portale simbolico verso un’altra dimensione.
La fontana di Diana, dea della caccia, in piazza Archimede a Siracusa
Ogni anno, in estate, vi si celebravano le feste della Nemoralia, in cui le donne e i pellegrini accendevano fiaccole e camminavano attorno al lago per onorare Diana, chiedere fertilità, salute e protezione. Durante questi riti, il sacrificio non era solo materiale ma simbolico: si offrivano fiori, statuette, trecce di capelli e promesse solenni. Il tutto all’interno di un cerchio rituale che rappresentava la morte e rinascita del ciclo naturale. La dea, signora della rigenerazione, presiedeva così al passaggio delle stagioni, al mutare delle fasi lunari e al mistero della vita femminile.
Ma Diana non era solo benevola: era anche guardiana inflessibile del proprio regno, protettrice del silenzio e dell’equilibrio naturale. Il suo mito si caricava dunque di un forte valore etico e morale.
Celebre è la leggenda del cacciatore Atteone, che, secondo la tradizione, osò spiare la dea mentre si bagnava nuda in una fonte sacra. In risposta a questa violazione, Diana lo trasformò in un cervo, e i suoi stessi cani, incapaci di riconoscerlo, lo sbranarono senza pietà. Questo racconto, oltre al suo fascino mitologico, racchiude una metafora universale: chi profana la natura, chi entra senza rispetto nei suoi luoghi sacri, viene punito con la perdita della propria identità, divorato dal suo stesso istinto.
Diana, dunque, non era solo dea della caccia, ma incarnava un codice sacro legato alla purezza dell’anima e del paesaggio. Il suo culto ci ricorda che cacciare non è solo prendere, ma riconoscere il mistero, rispettare il confine, ascoltare ciò che non parla con parole.
Nel mondo antico, il cacciatore non era solo colui che trafiggeva una preda, ma colui che sapeva muoversi in silenzio nei territori dell’invisibile, così come si addentra nel cuore di una foresta ancora intatta.
Odino e la caccia degli spiriti: la Wild Hunt
Nel cuore del Nord Europa, nella mitologia norrena e germanica, la caccia assumeva una forma ancora più misteriosa e mistica: la caccia selvaggia, la Wild Hunt.
A guidarla era spesso Odino, il dio supremo, padre degli dei, accompagnato da uno stormo di anime, spettri, cavalieri morti e animali magici. In alcune versioni, era affiancato dalla dea Frau Holle o dalla dea delle selve Perchta. La Wild Hunt appariva nel cielo nelle notti tempestose, tra venti gelidi e ululati lontani.
Chi la vedeva era destinato a morire, o a impazzire. Ma si diceva anche che il suo passaggio purificasse la terra, fertilizzasse i campi e portasse rinnovamento.
Questa caccia non era solo leggenda: rappresentava il passaggio tra mondi, tra stagioni, tra stati di coscienza. Era la caccia dell’anima, la prova dello spirito, il viaggio nel cuore oscuro dell’inverno.
Il dipinto Åsgårdsreien del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo raffigurante la caccia selvaggia, 1872, Galleria nazionale di Oslo
Divinità cacciatrici in ogni angolo del mondo
La figura del dio cacciatore o della dea cacciatrice è trasversale a tutte le culture antiche. Ovunque vi fossero boschi, steppe o deserti, gli dèi assumevano il volto del predatore sacro.
Nella cultura celtica, Cernunnos era il dio cornuto dei boschi, signore dei cervi e dei cinghiali, rappresentazione della virilità e del rinnovamento ciclico della natura.
Il dio Cerunnus raffigurato sul Calderone di Gundestrup
In Egitto, Set – dio del caos e delle tempeste – era anche il cacciatore per eccellenza, armato di lancia contro l’ippopotamo sacro, simbolo del nemico cosmico.
Nelle tradizioni sciamaniche delle popolazioni delle steppe, come gli Sciti, i Mongoli e i popoli turco-mongoli, esistono figure divine o spiriti associati alla caccia e al cielo. Ad esempio, Tengri è il dio celeste supremo nella religione tengrista, venerato come il padre del cielo e spesso associato alla natura e alla caccia. Gli sciamani, considerati intermediari tra il mondo umano e quello spirituale, invocavano spesso spiriti animali e cacciatori celesti durante i loro rituali per garantire il successo nella caccia e la protezione della tribù.
Tra i nativi americani, il Grande Spirito della Caccia (Wakan Tanka) era venerato come colui che donava gli animali all’uomo, ma solo se questi ne rispettava l’anima e il ciclo.
Caccia e sacrificio: un confine sottile e sacro
Nelle religioni antiche, caccia e sacrificio erano spesso indistinguibili. L’abbattimento della preda non era mai casuale: era un’offerta, una comunicazione tra l’umano e il divino.
Prima di cacciare, si pregava. Dopo la cattura, si ringraziava. Il sangue versato non era solo nutrimento: era energia restituita alla terra, elemento che garantiva equilibrio, prosperità, rinascita.
Presso i greci, ad esempio, prima delle battute più importanti, si offriva il primo sangue a Artemide, perché proteggesse i cacciatori e accettasse la morte dell’animale. Tra i romani, Diana veniva onorata con danze e canti propiziatori. Tra i popoli norreni, il primo animale cacciato all’inizio dell’inverno era spesso lasciato intatto nella foresta, affinché gli spiriti ne godessero.
Queste pratiche rituali mostrano quanto la caccia fosse vissuta come un atto spirituale, carico di senso, regolato da leggi non scritte che imponevano rispetto, misura, equilibrio.
Il cacciatore come sacerdote della natura
In molte culture, il cacciatore era considerato un essere liminale, sospeso tra due mondi: quello umano e quello animale, quello del villaggio e quello della foresta. In lui si incarnava una forma di sacerdozio arcaico, un sapere tramandato tra generazioni.
Il cacciatore conosceva le tracce, i venti, i silenzi, i sussurri del selvatico. Sapeva quando fermarsi, quando colpire, quando lasciar andare. Per questo, in molte tribù, il grande cacciatore era anche il guaritore, lo sciamano, il consigliere. E in alcune culture, come tra gli Ojibwa o i Sami, erano spesso le donne ad assumere questi ruoli sacri: cacciatrici e veggenti, custodi del bosco e dell’equilibrio.
Oggi: eredi inconsapevoli di un gesto sacro
Nel mondo moderno, la caccia rischia di apparire come un gesto tecnico, sportivo o addirittura anacronistico. Ma chi la vive con profondità sa che, in ogni passo silenzioso nel bosco, in ogni respiro trattenuto, in ogni attesa nella bruma del mattino, sopravvive qualcosa di molto più antico: il retaggio degli dèi cacciatori, il ricordo di riti, visioni, danze e racconti.
Chi entra in natura per cacciare, se lo fa con rispetto, misura e consapevolezza, riprende quel filo invisibile che ci lega ai miti e ai boschi sacri, a Diana e Odino, ad Artemide e Cernunnos. E, senza saperlo, diventa parte di un rito che dura da millenni: quello della caccia come gesto sacro, come incontro con la bellezza e il mistero del selvatico.
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