La caccia nella letteratura : da Hemingway a Mario Rigoni Stern

Caccia e letteratura: quando gli scrittori cacciatori raccontano la natura, il silenzio e l’etica del gesto
La caccia non è mai stata soltanto un’attività materiale, ma anche un gesto carico di simbolismo, una metafora, un modo per misurarsi con la natura e con se stessi. Lo hanno capito, vissuto e raccontato alcuni dei più grandi scrittori del mondo. In questo viaggio tra le pagine, riscopriamo il senso profondo della caccia attraverso lo sguardo – e la penna – di autori immortali: da Hemingway a Rigoni Stern, da Tolstoj a Mishima.
Ernest Hemingway: la caccia come metafora della vita
Ernest Hemingway è probabilmente lo scrittore che più di ogni altro ha fatto della caccia un elemento centrale della sua visione del mondo. Nei suoi racconti, la caccia è al tempo stesso un’esperienza fisica ed emotiva, una metafora dell’esistenza, della lotta, della morte e della dignità.
Nel capolavoro “Le nevi del Kilimangiaro”, ad esempio, l’ambiente africano e la caccia al leopardo diventano sfondo e simbolo della ricerca di senso da parte del protagonista, uno scrittore morente che ripercorre la propria vita. Hemingway amava profondamente la caccia – quella vera, selvaggia, senza filtri – e la considerava una delle ultime esperienze autentiche rimaste all’uomo moderno.
Celebre anche “Verdi colline d’Africa”, diario di una spedizione venatoria nella Tanzania degli anni ’30. Lì, tra il bush e i baobab, l’autore riflette sulla bellezza della natura, sull’etica del cacciatore e sulla spiritualità del gesto. Il fucile, per Hemingway, è lo strumento che impone al cacciatore la responsabilità di scegliere, di osservare, di confrontarsi con la propria coscienza. È la caccia come prova morale.
Lev Tolstoj: il piacere contemplativo della caccia
Ben prima di Hemingway, Lev Tolstoj, gigante della letteratura russa, aveva descritto la caccia nei suoi diari e racconti come forma di immersione nella natura e nel silenzio. Nella novella “Kholstomer” e nei suoi scritti autobiografici, Tolstoj dipinge battute di caccia invernali a piedi o a cavallo nelle steppe russe, non come atti aggressivi, ma come esercizi di armonia con il paesaggio, di confronto con la solitudine e con il gelo. Per lui, la caccia era quasi una forma di meditazione, un ritorno alla verità.
Mario Rigoni Stern: il bosco come casa, la caccia come ascolto
E veniamo all’Italia, e a uno dei più grandi interpreti della nostra letteratura del Novecento: Mario Rigoni Stern. Alpino, scrittore, cacciatore. Rigoni Stern ha fatto della sua Asiago e delle montagne circostanti un mondo letterario pieno di poesia, nostalgia e verità.
In libri come “Uomini, boschi e api”, “Il bosco degli urogalli” e “Stagioni”, la caccia è parte di un rapporto profondo e rispettoso con il paesaggio, con gli animali, con le stagioni e con la memoria. La beccaccia, l’urogallo, il camoscio diventano creature sacre, da osservare, da meritare, da ringraziare.
Non c’è mai euforia nel colpo sparato, ma consapevolezza. Non c’è esibizione, ma gratitudine. Per Rigoni Stern, caccia significa essere degni del bosco, entrare in silenzio, ascoltare, capire. E talvolta anche rinunciare.
I suoi scritti sono intrisi di etica venatoria, di amore per la montagna e per la natura, di quella filosofia del limite che oggi più che mai dovrebbe guidare ogni cacciatore consapevole.
José Ortega y Gasset: il cacciatore come filosofo dell’instante
Se Hemingway ha raccontato la caccia con la carne viva del realismo narrativo, il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset le ha dedicato una riflessione teorica tra le più affascinanti mai scritte. Nel suo “Meditazioni sulla caccia”, l’autore analizza la dimensione profonda dell’atto venatorio: non come sport, non come passatempo, ma come espressione del bisogno primordiale dell’uomo di misurarsi con la natura.
Per Ortega, la caccia è uno “stato di tensione creativa”, un modo per essere nel mondo in modo più vigile, più concentrato, più autentico. È anche uno spazio dove l’uomo riscopre il proprio istinto, il proprio limite, il proprio legame con l’animale e con l’ambiente. Il cacciatore non è un distruttore, ma un contemplatore attivo della vita e della morte. Un concetto che, ancora oggi, rappresenta una delle basi etiche della caccia sostenibile.
Jack London: istinto, sopravvivenza, wilderness
In “Il richiamo della foresta” e “Zanna Bianca”, Jack London racconta il ritorno alla natura primordiale attraverso gli occhi degli animali. Ma nei suoi racconti ambientati nello Yukon – come “To Build a Fire” o “Love of Life” – la caccia è necessità, è fatica, è sopravvivenza contro la morte. In questi testi, la natura è bellissima e ostile, e la caccia è un’azione tragicamente umana: a volte salvifica, a volte disperata.
Yukio Mishima: la caccia e l’estetica della morte
Il giapponese Yukio Mishima, scrittore e drammaturgo controverso e geniale, ha inserito la caccia nei suoi romanzi con una lente molto particolare: quella dell’estetica. Nei “Tetti rossi” e in alcune pagine di “Confessioni di una maschera”, il momento dello sparo, del confronto con l’animale, diventa un’epifania. La caccia è una scena teatrale, piena di simboli. Mishima ne fa quasi una disciplina di bellezza e crudeltà, specchio della tensione tra Eros e Thanatos.
Karen Blixen: la caccia come narrazione romantica
L’autrice danese Karen Blixen, celebre per “La mia Africa”, ha raccontato le sue esperienze venatorie in Kenya con una delicatezza tutta femminile. Nei suoi scritti, la caccia è parte integrante di un paesaggio narrativo fatto di tramonti, animali, relazioni fragili e domande etiche. È un mondo in bilico tra eleganza coloniale e profondo rispetto per la terra africana. La sua visione è lirica e malinconica, come l’Africa che descrive.
Carlo Cassola e Dino Buzzati: la caccia come solitudine e simbolo
Anche la narrativa italiana del dopoguerra ha toccato il tema della caccia in chiave più simbolica. Dino Buzzati, ne “Il colombre” e “Il crollo della Baliverna”, scrive di battute di caccia che diventano metafore dell’inconscio, del destino incombente. Carlo Cassola, invece, in racconti minori, descrive cacciatori silenziosi, malinconici, persi nella nebbia toscana, più intenti a cercare se stessi che la selvaggina.
Perché leggere i grandi scrittori cacciatori oggi?
In un’epoca in cui la caccia viene spesso ridotta a stereotipo – nel migliore dei casi fraintesa, nel peggiore demonizzata – rileggere questi autori significa riportare la discussione sul piano alto, quello culturale, spirituale, umano. Significa ricordare che caccia non è solo abbattere un animale, ma immergersi in un tempo lento, riconnettersi con la natura, confrontarsi con il silenzio. È fatica, attesa, etica. E spesso, anche rinuncia.
La letteratura venatoria ci restituisce una visione della caccia come atto di consapevolezza, dove ogni gesto ha un significato, dove l’uomo non è dominatore ma parte fragile dell’ecosistema.
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