Il richiamo dell’Africa: Grandi cacciatori africani dell’Ottocento: tra mito, avventura e ombre del passato

Published On: 15 Maggio 2025
Il richiamo dell’Africa: Grandi cacciatori africani dell’Ottocento

Alla fine dell’Ottocento, l’Africa era un continente avvolto dal mistero e dalla leggenda. Per l’Europa borghese e coloniale, rappresentava la “terra degli inizi”, lo spazio incontaminato dove la natura parlava ancora con voce primordiale. Era l’altrove assoluto, inaccessibile e irresistibile.

Il continente nero attirava esploratori, botanici, soldati, missionari e, naturalmente, cacciatori. Uomini alla ricerca di gloria, trofei, conoscenza o, spesso, semplice avventura. L’Africa era la tela ideale su cui proiettare sogni epici, fantasie romantiche, ossessioni personali. Era anche una terra difficile, crudele, che metteva alla prova fisico e spirito, e che spesso non perdonava.

cacciatori africani dell’Ottocento

Il fascino selvaggio dell’Africa di fine Ottocento si legava inestricabilmente alla figura del cacciatore bianco: eroe, antieroe, narratore, esploratore. Alcuni di questi uomini divennero leggenda, protagonisti di libri, racconti e cronache. Le loro storie, oggi, conservano un’aura mitica ma anche un’ombra lunga: quella lasciata dalla caccia all’avorio, dai massacri di animali, dal dominio coloniale.

In questo viaggio tra le savane, i fiumi e le foreste africane di un’altra epoca, scopriremo chi erano i grandi cacciatori di quel secolo, cosa cercavano, cosa hanno lasciato.

L’età dell’oro bianco: l’industria dell’avorio tra dominio e distruzione

Alla fine dell’Ottocento, l’avorio era una delle merci più pregiate del mondo. Chiamato “oro bianco”, era utilizzato per produrre oggetti di lusso, manici, bilie, sculture, tasti di pianoforte, pettini e decorazioni d’arredamento. La sua richiesta era enorme, alimentata dai mercati europei e americani, e l’Africa divenne il suo epicentro estrattivo.

Questa domanda trasformò la caccia da attività venatoria in industria sistematica. Intere spedizioni venivano organizzate con lo scopo esclusivo di trovare e abbattere elefanti per estrarne le zanne. Le carovane d’avorio, scortate da mercenari armati, si spostavano dai luoghi di raccolta verso le coste orientali e occidentali, da dove i carichi partivano verso il porto di Zanzibar, Mombasa, Luanda o Dakar.

caccia in Africa

L’impatto fu devastante: ecologico, sociale, politico. Migliaia di elefanti vennero massacrati ogni anno, portando al collasso intere popolazioni locali. I battitori africani venivano spesso ridotti in condizioni di semischiavitù, pagati pochissimo e sfruttati fino allo sfinimento. Le rotte dell’avorio divennero anche rotte della tratta degli esseri umani: schiavi e zanne viaggiavano insieme, a testimonianza della brutalità di quel commercio.

Politicamente, il commercio dell’avorio fu una delle leve dell’espansione coloniale. Grandi compagnie europee, in accordo con governi e autorità militari, usarono la caccia come pretesto per prendere possesso di territori e risorse. La penetrazione dell’interno africano fu spesso guidata proprio da cacciatori, esploratori e commercianti d’avorio, i primi a spingersi là dove nessun europeo era mai stato.

Se alcuni di loro, come Selous o Baker, mostrarono una certa consapevolezza del problema, la maggior parte agì senza limiti, guidata dal profitto e dalla gloria. Solo nei primi decenni del Novecento, con l’inizio delle prime politiche di conservazione, si cominciò a comprendere la portata del disastro. Ma il danno era ormai fatto: in molte aree dell’Africa, il suono del barrito degli elefanti scomparve per sempre.

Il lato oscuro: la caccia all’avorio

Mentre alcuni cacciatori agivano per passione o per scienza, molti altri furono strumenti o protagonisti del commercio dell’avorio. Alla fine dell’Ottocento, le zanne d’elefante erano ricercatissime in Europa e America: per tasti di pianoforte, manici di coltello, decorazioni. Il prezzo saliva e i fucili sparavano.

zanne d’elefante

Migliaia di elefanti vennero sterminati. Interi branchi sparirono in poche stagioni. Le cronache dell’epoca, se lette con occhi attenti, parlano di viaggi compiuti solo per trovare nuove “mandrie da lavorare”. La caccia si trasformò in sterminio, in industria, in saccheggio.

Anche figure leggendarie come Selous parteciparono in parte a questa attività, pur con limiti e sensibilità diverse. Solo all’inizio del Novecento cominciarono le prime forme di protezione, spesso ad opera degli stessi cacciatori convertiti alla conservazione.

Frederick Courteney Selous: il cacciatore gentiluomo

Selous è forse il più celebre tra i cacciatori africani dell’epoca vittoriana. Inglese, elegante, colto e atletico, era un naturalista oltre che un tiratore eccezionale. Iniziò a cacciare in Africa nel 1871 e per oltre vent’anni esplorò le regioni tra il fiume Limpopo e lo Zambesi.

Scrisse numerosi libri – tra cui “A Hunter’s Wanderings in Africa” – in cui racconta con stile brillante i suoi incontri con leoni, elefanti, bufali, rinoceronti. Era stimato da Roosevelt, che lo considerava un modello di cacciatore etico e sportivo.

Selous morì nel 1917 durante la Prima guerra mondiale, in Mozambico, colpito da una pallottola nemica mentre combatteva come ufficiale. Il suo nome è legato alla grande riserva naturale Selous Game Reserve, in Tanzania.

Curiosità: si dice che Selous fosse in grado di seguire le tracce di un animale per chilometri senza sbagliare mai una direzione. Era noto per il rispetto verso gli animali e per la sua profonda conoscenza delle tribù locali.

William Cotton Oswell: il cacciatore al fianco degli esploratori

Medico, avventuriero e naturalista, Oswell è ricordato per le sue spedizioni nel Kalahari insieme a David Livingstone. Era un cacciatore eccellente ma anche un uomo dall’etica rigorosa. Cacciava per necessità e studio, mai per vanità.

Partecipò alla scoperta del fiume Zambesi e della regione dei Laghi dell’Africa meridionale. Fu uno dei primi europei a cacciare elefanti nel Kalahari, ma il suo diario è anche pieno di riflessioni sul limite e sul rispetto.

William Cotton Oswell

Aneddoto: durante una spedizione, Oswell rinunciò a sparare a un elefante perché aveva notato che era una madre con un piccolo appena nato. Quel gesto fu molto apprezzato dalle guide locali, che lo soprannominarono “cuore grande”.

Henry Morton Stanley: la doppia faccia della spedizione

Famoso per aver ritrovato Livingstone (“Dr. Livingstone, I presume?”), Stanley fu anche cacciatore e uomo d’azione. Le sue spedizioni in Congo e lungo il fiume Lualaba furono segnate da scontri, sacrifici e violenze. Era spietato, determinato, e vedeva nella caccia una forma di supremazia.

Henry Morton Stanley

Le sue cronache descrivono abbattimenti di elefanti, ippopotami e grandi felini con tono epico. Ma oggi sappiamo che molte delle sue azioni furono parte integrante del progetto coloniale belga, spesso disastroso per l’ambiente e per le popolazioni locali.

Nota storica: Stanley fu uno dei protagonisti dell’apertura dell’Africa centrale all’occidente, ma anche uno dei simboli dell’ambiguità morale di quel periodo. La sua figura resta controversa.

Roualeyn Gordon-Cumming: il leone della penna

Roualeyn Gordon-Cumming: il leone della penna

Scozzese, militare di formazione e cacciatore appassionato, Roualeyn Gordon-Cumming fu uno dei primi europei a descrivere

dettagliatamente la caccia in Africa australe. Tra il 1843 e il 1845 viaggiò nelle zone oggi comprese tra Sudafrica, Botswana e Zimbabwe, cacciando elefanti, leoni e rinoceronti.

Il suo libro, Five Years of a Hunter’s Life in the Far Interior of South Africa, fu un best seller in Inghilterra, grazie al suo stile epico e avventuroso. Le sue descrizioni sono vivide, e le sue battute di caccia – soprattutto quelle ai leoni – divennero leggendarie.

Aneddoto: soprannominato “il leone vivente” per il coraggio dimostrato durante un attacco notturno in cui uccise due leoni a pochi metri dalla sua tenda, fu celebrato nei salotti londinesi come un eroe romantico, anche se non mancarono le critiche per la crudeltà di alcune sue azioni.

Samuel White Baker: cacciatore, esploratore e difensore della fauna

Sir Samuel Baker fu uno dei primi europei a esplorare l’Alto Nilo e a scoprire il Lago Alberto. Ma era anche un grande cacciatore, noto per laThe Nile Tributaries of Abyssinia sua maestria nell’uso della doppietta e per il coraggio mostrato durante gli scontri con elefanti, bufali e leoni.

Il suo libro più famoso, The Nile Tributaries of Abyssinia, racconta avventure incredibili, ma anche osservazioni naturalistiche e antropologiche.

Curiosità: nonostante l’intensità delle sue cacce, Baker fu uno dei primi a denunciare la decimazione degli elefanti a causa del commercio dell’avorio. Sposato con Florence, una donna coraggiosa che lo seguiva nelle spedizioni, costituì una delle prime “coppie da safari” della storia.

Charles Baldwin: il re degli elefanti

Poco conosciuto al grande pubblico ma leggendario tra i cacciatori africani, Charles Baldwin è ricordato per essere stato uno dei più prolifici “elephant hunters” della seconda metà dell’Ottocento.

Si dice che abbia abbattuto oltre 1.000 elefanti nel corso della sua vita, soprattutto nell’area dell’attuale Zimbabwe. Le sue imprese sono note per il sangue freddo, l’audacia e il tiro micidiale con il suo fucile da due libbre.

Nota storica: le sue gesta, tramandate oralmente e attraverso lettere pubblicate su riviste inglesi, ispirarono molti giovani avventurieri dell’epoca. Tuttavia, il suo nome è anche legato alla feroce espansione del commercio dell’avorio nell’Africa australe.

Oltre ai nomi noti, molti altri protagonisti – spesso dimenticati – contribuirono a scrivere le pagine della caccia africana: guide indigene, battitori, portatori. La loro conoscenza del territorio era straordinaria: sapevano leggere una traccia nella sabbia, riconoscere i richiami di allarme di una scimmia, intuire l’arrivo di un predatore. Questi uomini furono i veri artefici della riuscita di molte spedizioni, eppure raramente i loro nomi vennero ricordati nei libri.

L’interazione tra cacciatori europei e tribù locali era complessa: si muoveva tra rispetto reciproco e imposizione coloniale. Alcuni cacciatori, come Selous e Oswell, cercarono un dialogo, impararono le lingue, adottarono costumi. Altri usarono la forza, sfruttando e talvolta reprimendo duramente le popolazioni indigene. Approfondire questo rapporto permette di comprendere la caccia non solo come gesto tecnico, ma come incontro (o scontro) tra culture.

Dove si cacciava: geografia della caccia leggendaria

I luoghi della grande caccia africana erano spesso territori remoti, al limite tra savana e foresta, tra deserto e fiume. Le aree più battute nell’Ottocento furono:

Il bacino del Limpopo e dello Zambesi (oggi Zimbabwe, Zambia, Botswana): regno degli elefanti e dei bufali.

La regione del Nilo Superiore (Sudan, Uganda): esplorata da Baker, ricca di ippopotami, coccodrilli e antilopi.

Il Kalahari e il Bechuanaland (oggi Botswana): deserti e savane punteggiati da pozze d’acqua, teatro delle spedizioni di Oswell.

La Rift Valley e i Grandi Laghi (Kenya e Tanzania): crocevia di leoni, rinoceronti, e branchi migratori.

L’estetica del cacciatore: bauli, doppiette e trofei

geografia della caccia leggendaria

Il cacciatore dell’Ottocento era anche un simbolo estetico. Indossava completi in tela coloniale, stivali alti, cinturoni con bossoli d’ottone. Viaggiava con bauli in pelle, tende pieghevoli, argenteria, libri e fucili da sogno.

Le armi erano veri oggetti d’arte: doppiette express Holland & Holland, Express rifles da due libbre, fucili a percussione finemente incisi. I campi erano piccoli mondi: con tende-cucina, tavoli per la scrittura, poltrone pieghevoli e tappeti.

I trofei erano esibiti nei salotti europei, ma anche usati come moneta per ottenere favori o contratti. Il collezionismo ossessivo di zanne e corna si intrecciava spesso a una dimensione narcisistica: il cacciatore come dominatore, come collezionista di potere.

Tra mito e consapevolezza

I grandi cacciatori africani dell’Ottocento ci appaiono oggi come figure complesse. Furono avventurieri, esploratori, naturalisti, scrittori. Alcuni furono pionieri della conservazione, altri protagonisti di un’economia distruttiva. Le loro storie ci affascinano ancora perché raccontano di un’Africa immensa e selvaggia, di uomini soli davanti al leone, di falò sotto le stelle e di silenzi infiniti.

Ma leggere le loro gesta oggi significa anche riflettere. Comprendere l’impatto delle nostre azioni, la fragilità della natura, il valore della memoria e della responsabilità.

Perché il vero cacciatore, oggi come allora, non è colui che uccide di più. È colui che sa guardare un animale e sentire, in quel momento, la bellezza del mondo intero.

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