Mal di Bute: Un Viaggio di Caccia alle Beccacce nell’Isola Scozzese che Ti Resta nel Cuore
Stavo semplicemente cercando una nuova avventura, qualcosa che mi permettesse di staccare dalla routine e vivere di nuovo la pura emozione della caccia alla beccaccia con i miei due setter.
Avevo già esplorato diversi luoghi in passato, ma volevo qualcosa di diverso, un’esperienza che potesse sorprendermi. Così, una sera come tante, mentre scorrevo proposte online, mi imbattei in un luogo che subito accese la mia immaginazione: l’Isola di Bute, in Scozia. Non ne avevo mai sentito parlare per la caccia, ma le descrizioni promettevano foreste fitte, distese di felci e terreni perfetti per la beccaccia. Più leggevo, più sentivo il desiderio crescere.
Bute, situata nel Firth of Clyde, è particolarmente nota per l’abbondanza di beccacce, che trovano rifugio in questo paradiso naturale grazie al clima temperato e ai terreni ricchi di vegetazione. L’isola, con i suoi inverni miti e le estati fresche, offre alle beccacce condizioni ideali per riposarsi durante le migrazioni, rendendola una delle mete più frequentate da questi uccelli durante l’autunno e l’inverno. La presenza di folte foreste di querce, prati e aree umide fornisce l’habitat perfetto per la loro sopravvivenza. Questo fa sì che, durante la stagione venatoria, i cacciatori come me possano vivere esperienze indimenticabili, incontrando un numero straordinario di beccacce.
In poco tempo presi la decisione. L’organizzazione fu meticolosa: avrei preso un volo per la Scozia, noleggiato i fucili direttamente sull’isola per maggiore comodità, e inviato i miei cani con un servizio di trasporto specializzato. Era la prima volta che mi separavo dai miei setter per un viaggio, ma sapevo che sarebbero stati trattati con la massima cura.
Arrivato in Scozia, il viaggio in traghetto da Wemyss Bay fino a Bute fu un momento speciale. Guardavo il mare che si increspava sotto la barca, mentre l’isola si avvicinava all’orizzonte. Mi sentivo un po’ come un esploratore che sta per scoprire un nuovo mondo. I quindici minuti di traversata sembrarono un’eternità: la mente correva ai miei cani, alla caccia che mi attendeva e alla bellezza che già intuivo mi avrebbe circondato. Quando sbarcai, l’isola di Bute mi accolse con la sua natura selvaggia e rigogliosa. Colline ondulate, boschi densi e ruscelli che serpeggiavano tra prati verdi, tutto sembrava respirare una bellezza ancestrale, incontaminata. Sentii subito che quel luogo avrebbe lasciato un segno profondo nel mio cuore.
Quando finalmente riabbracciai i miei setter, li trovai pieni di energia, pronti all’avventura. Sistemarmi nel lodge fu un’esperienza piacevole: una struttura rustica ma elegante, con un camino che scoppiettava nel salotto e un’atmosfera calda e accogliente. Ma la mia mente era già rivolta al mattino seguente. Dormii poco quella notte, l’emozione era troppa. Sapevo che all’alba sarebbe iniziato qualcosa di speciale.
Il primo giorno di caccia cominciò presto, con l’aria fresca e un cielo che si tingeva dei primi colori del sole nascente. I miei cani erano scattanti, i muscoli tesi e pronti. Il terreno era umido, perfetto per la beccaccia, e le distese di felci che si estendevano davanti a me promettevano avvistamenti. Camminando tra querce antiche e terreni misti di prati e boschi, i setter iniziarono a lavorare come fossero stati lì da sempre. Ogni movimento, ogni fermata era una danza silenziosa, un dialogo tra me e loro, che culminò quando uno dei miei setter si fermò bruscamente. Il tempo sembrava rallentare. Il naso del cane puntato verso la preda, la coda rigida, la tensione nell’aria. Ed eccola, la beccaccia. Con un frullo d’ali, si alzò in volo. Il cuore mi batté forte, ma decisi di godermi la sua fuga, lasciandola libera di scomparire tra gli alberi. A Bute, la quantità di avvistamenti era tale che mi ricordai subito dell’importanza dell’etica: non si trattava di prendere più prede possibile, ma di rispettare quel luogo magico.
Le giornate seguenti furono un susseguirsi di emozioni simili. I miei setter continuavano a dimostrarsi all’altezza del compito, e io mi trovavo immerso in un paesaggio che sembrava uscito da una fiaba. Le colline dell’isola erano un tripudio di colori: il verde intenso dei prati, il marrone dorato delle felci autunnali, i tronchi nodosi degli alberi che, alla luce del sole, si stagliavano contro un cielo azzurro cristallino. Ogni passo che facevo tra quei boschi mi faceva sentire parte di quel mondo, come se l’isola mi stesse sussurrando segreti antichi.
Cacciare a Bute richiedeva però una grande disciplina. La quantità di beccacce avvistate era incredibile, ma il rispetto per l’ambiente e per la fauna era la priorità. Anche quando il frullo di una beccaccia riempiva l’aria e i miei cani erano in perfetta sincronia, mi ricordavo che era fondamentale fermarsi, riflettere e non esagerare. Era una caccia di qualità, non di quantità. Il vero piacere stava nel vivere quei momenti in sintonia con la natura, in compagnia dei miei cani.
Ogni sera, al rientro al lodge, la stanchezza si mescolava alla soddisfazione. Seduti intorno a un tavolo con gli altri cacciatori, con un bicchiere di whisky in mano, condividevamo storie, esperienze e risate. Le cene erano un trionfo di sapori locali, spesso a base di selvaggina, preparate con maestria dagli chef del lodge. I profumi dei piatti riempivano l’aria, e la conversazione scorreva fluida fino a tarda notte. Non c’era fretta, solo il piacere di condividere la passione comune per la caccia in uno scenario così unico.
Al termine del quarto giorno, mentre preparavo le mie cose per il ritorno, un senso di malinconia iniziava a farsi strada. Guardai i miei setter, stanchi ma felici, e sentii che quell’isola mi aveva lasciato qualcosa di profondo. Il “mal di Bute”, come lo chiamano, è reale. Proprio come il “mal d’Africa”, l’Isola di Bute aveva piantato radici nel mio cuore. Il suo richiamo, i suoi boschi, il frullo delle beccacce tra le felci, i miei cani che esploravano con passione… tutto mi faceva desiderare di rimanere ancora un po’. Ma sapevo che un giorno sarei tornato. L’Isola di Bute era diventata parte di me.
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